Loricati in abito bianco

Loricati in abito bianco
Loricati su Serra Crispo

sabato 27 dicembre 2014

Il Coccovello, un terrazzo sul tirreno meridionale

Le isole Eolie all'orizzonte

Andando a Maratea in estate un appassionato di montagna non può fare a meno di pensare a quale vista si possa godere dalle montagne subito a ridosso della linea di costa.
Visto che d'estate le temperature sono quelle che sono mi ripromettevo di ritornarci in inverno,
ma poi d'inverno seguivo invariabilmente il richiamo delle nevi del Pollino.
Visto che in questo 2014 la neve ha latitato (fino a Natale) abbiamo finalmente messo in atto i nostri propositi.
In una giornata tersa dal passo della Colla abbiamo seguito per un breve tratto una carrozzabile (fino a dove diveniva sterrata).

La costa tirrenica calabro lucana.
Di li abbiamo seguito la sterrata che arriva fino alla frazione di Acquafredda (non so se sia tutta percorribile in 4*4, di sicuro è segnalata come percorso escursionistico che collega Rivello, Trecchina ed Acquafredda in una ideale tappa iniziale per un "Basilicata coast to coast").
Arrivati ad un pianoro per tracce di sentiero (segnate da bestiame, cinghiali e cacciatori) abbiamo puntato verso l'evidente ripidissimo costone S.
Usciti a gran trotto dal bosco (abbiamo sentito aggirarsi cacciatori e volevamo evitare di fare la fine dei cinghiali) abbiamo poi proseguito puntando verso la cresta di vetta superando varie facette rocciose (tutte aggirabili) e qualche rado boschetto.

La costa a nord. Sapri ed il capo Palinuro
Man mano che ci si alzava il panorama si apriva a dismisura in uno scenario grandioso.
Dietro il Cristo di Maratea la costa calabra si allungava a perdita d'occhio ed all'orizzonte è spuntata chiaramente un cono vulcanico che, cartina alla mano, non poteva che essere lo Stromboli.
Arrivati in cima anche le altre isole si distinguono; considerando che stromboli è a 150 km mentre le più lontane ad oltre 200 km c'è una bella vista.
Il panorama è fenomenale in ogni direzione da Capo Palinuro fino a buona parte della cosa calabra.
Alcuni cavalli trottano tra la dolina di vetta e la cresta e ci osservano stupiti.
Qualche rapace si sgranchisce le ali.
Cavalli al pascolo. Sullo sfondo le Serre del Pollino.
Dopo la sosta di rito ci avviamo puntando, attraverso un altro costone, direttamente al parcheggio dell'auto.
Con il sole che scende, le Eolie di stagliano ancora più nettamente all'orizzonte.
Qualche ultima incertezza nel percorso finale c'è nell'attraversamento della fascia boscosa, ma ne usciamo fuori.
Un'escursione meritevole ma da fare rigorosamente nei periodi freddi (a meno di non percorrere i sentieri sul lato N).
Particolare dell'isola di Salina.

giovedì 9 ottobre 2014

A Montserrat. Alla scoperta del conglomerato catalano

Alcune torri sul lato Nord. A due passi dal monastero.

Dopo aver girato in lungo ed in largo i Pirenei catalani non si poteva non fare una visita nella celebre Montserrat.
E' un pò, mi si consenta il paragone ardito, il Resegone di Barcellona.
Entrambi  si rifanno alla forma a dente di sega dei profili montuosi.
Qua finiscono i paragoni, infatti la roccia catalana è costituita esclusivamente da conglomerato e raramente ci si appoggia la neve.
Questo è un agglomerato di sassi di svariatissime forme e colori letteralmente cementati assieme da madre natura.
Montagne sbriciolate dal tempo e che poi il tempo ha riunito e rialzato dai loro sepolcri.
L'acqua ha poi completato il lavoro scolpendo e rilavorando l'impasto.

Il primo tiro della prima via fatta.

Quando ci si avvicina il prima istinto è di mettere mano al casco; sembra che ci siano un sacco di proiettili pronti a staccarsi e piombarti
addosso, ci si aspetterebbe di trovare materiale mobile ovunque.
Invece non è così.
L'insieme è generalmente molto compatto e si tiene in modo sorprendente.
Probabilmente anche grazie al clima nettamente mediterraneo che impedisce al ghiaccio di fare il suo lavoro demolitorio.

Le strutture sono generalmente verticali e si trovano forme pittoresche (ma tutte tondeggianti), paiono disegnate da uno degli artisti che
proliferano da queste parti: Dalì, Gaudì e soci.



Un insieme di torri, candele, mammelloni ed altro dove si va anche oltre il verticale ed in cui si arrampica quasi sempre in esposizione.
La chiodatura è abbastanza buona ma diversa dai nostri standard.
Generalmente in Italia in falesia si oscillta da una chiodatura ascellare, con cui si può quasi progredire tirando i rivii da uno spit all'altro, ad una in cui dove di solito tra uno spit e l'altro non passano più di tre/quattro metri.
Questo indipendentemente dal grado.
In recupero da un comodo terrazzino.


A Montserrat invece, forse per rispettare la chiodatura tradizionale dei primi apritori, non ci si è attenuti ai moderni standard di sicurezza. Quindi dove il grado si mantiene basso (IV e V) tra uno spit e l'altro possono passare anche 5 o 6 metri.
Pur essendoci abbondanza di appoggi, occorre avere un certo self control.
Sulla "Aresta Ribas" (315mt 6a)

Quando poi si arriva sul VI/VI+ fortunatamente gli spit ritornano ad abbondare, anche in modo disordinato.
L'esperienza quindi è molto interessante. Anche perchè le difficoltà, pure se limitate (per gli standard moderni) sono molto continue.

Il primo giorno sul versante nord abbiamo fatto una classicissima, di 8 tiri, con un tiro centrale di 6a bello fisico, ed una seconda via da 6, dove, escluso il primo, si stava su un bel V pieno e continuo dall'inizio alla fine.
Calandoci abbiamo poturo osservare delle capre iberiche che saltellavano allegramente sullo sfondo di un bel tramonto.
Ce n'è per tutti i gusti

Il secondo giorno abbiamo fatto una via (Aresta Ribas) sul versante sud. Per loro è "equipada" (con il che intendono che si sono le soste e qualche chiodo sui passi chiave di 5c/6a), c'è quindi da attrezzare ed integrare.

Ambiente grandioso, dopo mezz'ora di cammino sembrava di essere fuori dal mondo civilizzato, nessuno intorno, natura rigogliosa ed unici rumori quelli dei rapaci.
In cima all'Aresta Ribas

In qualche modo ne siamo venuti fuori, e, soprattutto, la discesa è stato un inatteso fuori programma. Canyoning in un canale secco e ripidissimo
a scavalcare tronchi e massi per un'oretta prima di riprendere un sentiero tranquillo.

Insomma, è un paradiso per alpinisti o climber che non amano il freddo e la neve, ci sono vie di ogni difficoltà e gusto dal IV all'8b e con avvicinamenti brevi
per i settori principali (sfruttando la funicolare o la strada che contorna le falesie).

sabato 5 luglio 2014

Attorno al pizzo Ledù

Vista sul lago di Como dai presti della cresta Sud del Ledù
Dove le Alpi Lepontine lasciano  il posto alle Retiche ci sono zone di grande fascino in cui, a pochi km in linea d'aria da strade di grande comunicazione e frequentazione, si possono vivere esperienze di montagna non addomesticata.
Nell'alta valle Spluga ci sono le cime più alte e più frequentate, i 3000 come il Tambò, il Ferrè, il Suretta e le loro consorelle.
La frequentazione è favorita dale strade che portano più in alto e dalla presenza di centri turistici più noti.
Vengono invece tralasciate montagne certo non meno affascinanti, come il Ledù od il Prata, che scontano la colpa di non essere accessibili se non sobbarcandosi dislivelli importanti che pochi possono o vogliono fare in giornata.
Approfittando di un venerdì libero con un sabato dalle previsioni non essessivamente infauste (rari in questa finta estate 2014) ci siamo decisi a puntare al bivacco Ledù.  Il giorno successivo avremmo poi deciso in base alle gambe ed al meteo come ritornare sul fondovalle.

Il bivacco dalla Bocchetta del Cannone

Partiamo da Gordona, in corrispondenza della strada che sale in val Bodengo. Seguiamo una bella mulattiera che arriva alla cappella degli Alpini, passeggiata che già di per se regala bei panorami su Valchiavenna, e Bregaglia.
Seguiamo infine la strada, a pagamento per i non residenti, che arriva in val Bodengo.

La abbandoniamo poi all'inizio della valle Garzelli.
Da qui la bocchetta del Cannone, da cui dovremo transitare per raggiungere il bivacco, appare ben lontana.
Il cielo è terso, dopo le piogge dei giorni passati, ed il sentiero che percorreremo è noto per essere soggetto a frane e smottamenti. Inizialmente pare di risalire un torrente, ghirato l'angolo sembra di essere già in un altro mondo: remoto, arcano e non tranquillizzante.
Il sentiero è in buone condizioni, e rimonta decisamente la valle. Sbuchiamo infine nel magnifico scenario dell'alpe Campo, alcune baite sono state ristrutturate ma in giro non c'è nessuno.
I versanti Nord offrono uno scenario severo e selvaggio, con i canaloni ben pieni di neve.
Dopo una sosta per ritemprarci rimontiamo gli ultimi ripidi pendii (inizialmente senza seguire un percorso segnalato, che non troviamo) e dopo una serie di strappi arriviamo al nevaio sottostante la bocchetta.
Il canale per la Bocchetta del Cannone

Meno male che abbiamo portato un paio di ramponi, un pezzo di corda ed un imbrago. (per essere leggeri). Ci leghiamo quindi alla meglio e con i ramponi  e la piccozza traccio un percorso ben gradinato che Cate, legata ma senza ramponi, riesce pian piano a seguire. Gli ultimi duecento metro sono ben ripidi e senza ramponi non ci saremmo arrischiati.
Arrivati alla bocchetta la vista sull'altro versante è favolosa, il laghetto è ancora ad inizio disgelo, pieno di neve. Poco più sotto c'è il nostro bivacco che si staglia con sullo sfondo il lago di Como.
 
Raggiunto il bivacco mettiamo ad asciugare un pò di roba e, dopo un pò di relax, ci avviamo verso la cima di Rabbi.
Le nubi vanno e vengono, ovviamente non c'è nessuno nei dintorni, tranne un branco di pecore che brucano poco sotto la cima.
Ridiscesi al bivacco ci approntiamo alla cena usufruendo dell'abbondante acqua in uscita dal lago.

Una nebbia vagamente spettrale staziona costantemente sul lago contribuendo a creare un'atmosfera surreale.

Ci riserviamo di decidere domani il percorso in base alle previsioni meteo più aggiornate del mattino.
Confermato il peggioramento del tempo rinunciamo quindi a ritornare per la val Bodengo (pensavamo dal passo della Crocetta) e, confidenti sulla cartina Kompass, seguiamo il tracciato del sentiero che contorna il lato Sud del Ledù con l'idea di scendere agevolmente all'alpe Manco.
Il percorso è magnifico, taglia la cresta sud del pizzo con un percorso audace "Sentiero attrezzato del Ledù" in buone condizioni. Peccato non avere un paio di cordini per farci sicura in modo più consono (Consiglierei un set da ferrata per questo percorso). Sale e scende per diverse bocchette molto aeree e cenge esposte.
C'è poi la sorpresa finale, nel tratto finale della ferrata c'è una vera e propria crepaccia terminale da superare. Dopo aver provato, inutilmente, ad aggirarla, ci mettiamo a gradinarla con la piccozza e ne abbiamo alfine ragione.
Le nubi sono sono sempre più dense ed a tratti la visibilità è nulla.. In questo tratto perdiamo per un pò la segnaletica a bolli bianco rossi.

Panorama dalla Cima di Rabbi
Andiamo nell'unico posto ragionevole, cioè in basso, tra ganda e massi instabili, e dopo un paio di centinaio di metri usciamo dalla nubi e ritroviamo un bollo di segnalazione del sentiero.
Le nubi si ridiradano e ci consentono di arrivare in corrispondenza di quello che dovrebbe essere il passo di Manco. Qui la Kompass 'darebbe' un sentiero a tratto continuo (quindi ben tracciato); tutte balle!!! C'è un ometto di sassi in corrispondenza di un canale infido e poco attraente, ma comincia a piovere e decidiamo di provare a scendere di li.
Una bocchetta sul sentiero attrezzato del Ledù

Dopo un paio di centinaia di metri di terreno friabile e scivolosissimo vedo un residuo di bollo. Quindi deduco che il sentiero era qui ma è andato in disuso e nessuno lo manutiene più da parecchi anni.
Più in basso il canale si stringe e presenta uno scivolo ripidissimo e pieno di neve dura; da qui decisamente non si passa.
Risaliamo una ventina di metri e proviamo a scendere un pò più a destra; ci sono tracce di capre o camosci, se passano loro dobbiamo passare anche noi. E poi il rombo del tuono incalza. In qualche modo ne veniamo fuori e tra rododendri e gande. Traversando vediamo venir giù un sasso grosso come un'automobile dalla soprastante parete che esplode e si frantuma man mano.
Raggiungiamo infine il sottostante sentiero che porta al bivacco alpe Manco dove ci fermiamo a rifocillarci e farci un te caldo.

La traversata dal bivacco fino a qui ha richiesto molto più tempo di quanto immaginavamo, ora si tratta 'solo' di spararci 1500 mt di dislivello in discesa, con diverse risalite e traversate di canali che, con la pioggia,chissà in che condizioni sono.
Le nubi montano rapidamente in cresta

Ci sigilliamo con coprizaini, giacche e sovrapantaloni e cominciamo l'infinita discesa verso valle sotto una pioggia che diventa sempre più fitta.
I canali non sono ancora pieni di acqua e quindi li traversiamo abbastanza agevolmente, la giacca in goretex fa quel che può ed a sera raggiungiamo finalmente il fondovalle zuppi fino al midollo e con la sensazione  che stavolta ci è andata proprio bene.

sabato 21 giugno 2014

Nelle Apuane dal cuore di marmo aperto

All'inizio della ferrata. Di fronte alla Nord del Pizzo d'Uccello
Dopo aver tanto sentito parlare delle Apuane non potevamo non farci un salto, gli abbiamo dedicato un WE allungato visto che comunque non è proprio a due passi.
Il gruppo si staglia e fa notare a distanza.
Decidiamo di fare la prima escursione partendo da Vinca.
L'ultima parte del percorso stradale è tortuosa. Si incontrano anche dei Tir che portano blocchi di marmo o che vanno alla cartiera.
L'accesso a Vinca è per una gola gola strettissima, non stupisce che da queste parti i Romani abbiamo trovato pane per i loro denti.
Gli Apuani, secondo molti storici, attirarono i Romani in un impervio canalone che da allora fu battezzato col nome di Saltus Marcius, dove i cavalieri maledirono i propri cavalli,
dove le lunghe lance dei fanti rimanevano impigliate nella boscaglia, e le pesanti corazze impedivano la necessaria agilità.
La cresta del Sagro

Qui erano presenti anfratti e nascondigli noti soltanto al nemico.
I Romani arrivarono a spogliarsi ed a gettare le armi soltanto per poter fuggire meglio:
“…prius sequendi Ligures finem quam fugae Romani fecerunt” (smisero prima i Liguri di inseguire che i Romani di fuggire)
Successivamente i Romani si sono rifatti con gli interessi e, per stare tranquilli, hanno finanche deportato 40000 persone nel Sannio.
I pochi rimasti si sono adattati al nuovo status quo ed i Romani sono diventati i primi a sfruttare industrialmente il pregiato marmo con cui hanno testimoniato la loro potenza al mondo.

Da allora di marmo ne è stato scavato tanto e le cave hanno man mano risalito i pendii più impervi e rosicchiato tutte le montagne della zona.
Le case esaurite sono state semplicemente abbandonate e creano dei paesaggi lunari.
Scendi nel bosco con a fianco un ravaneto e sembra di avere a fianco un ghiacciaio.
Sei in un ambiente selvaggio, giri l'angolo e d'improvviso ti ritrovi in una discarica di pietre.

Ci si chiede quanto abbia senso tutto ciò. Parli con la gente del posto e ti dicono, con un velo di tristezza, che ormai, con i macchinari moderni, la gente che lavora col marmo è sempre meno.

Cave che squarciano boschi e montagne
Che quelli che si arricchiscono sono in pochi.
Interi versanti, specie dal lato di Carrara, sono stati mangiati via. E le cave risalgono su pendii impensabili.
Nel ultimi anni poi si è preso a non buttar via niente, ed anche gli scarti di lavorazione vengono triturati ed usati. 

Ciononostante ci sono ancora dei punti dove si respira lo spirito selvaggio di questi monti.
Molti percorsi sono non banali, bisogna praticare agevolmente quella che i catalani chiamano 'Grimpata', una via di mezzo tra camminata ed arrampicata vera e propria.
Creste in cui si sta sul filo del II/III grado.

Da Vinca facciamo un lungo percorso ad anello che ci porta, per la Punta 3 Uomini, sulla bocchetta del Sagro, da dove 'ammiriamo' le enormi cave di quel versante.
Ritorniamo a fine giornata a Vinca passando per la Foce di Vinca, la Foce di Rasori e le CapanneDellaCosta.

(PS Qui la toponomastica è diversa da altre parti ed i colli si chiamano "Foce".)
Nell'ultima parte del percorso passiamo in mezzo ad un bosco di castagni secolari, veri monumenti vegetali.
Ci spostiamo quindi in auto per portarci in Val Serenaia dove alloggeremo nel rifugio omonimo.
E' la sera di Italia-Costa Rica, nei paesini è un tripudio di bandiere, ma al rifugio siamo fuori dal mondo. Neanche la radio ha segnale (visto l'esito non è stata una grande perdita).
Dopo una buona cena e due chiacchiere con la signora che gestisce il rifugio (tappezzato di foto di Maraini, frequentatore del posto) andiamo a dormire.


Il giorno dopo avevamo intenzione di fare in discesa la ferrata del Pizzo d'Uccello ritornando poi con un altro anello, per la cresta di Nattapiana.
La vista sulla nord del Pizzo è magnifica, ma già mentre cominciamo la discesa le nubi cominciano  a nascondere le cime.
Le rughe della terra su una roccia

La ferrata è molto bella (in un paio di punti il cavo è rotto ma non crea problemi) e vediamo due cordate in parete.
Arrivati in fondo troviamo un cartello che indica che la ferrata è chiusa!!
Cavolo, se c'era anche sopra evitavamo di scendere, ma il bello viene dopo.
Infatti dopo essere scesi un altro paio di centinaia di metri, con a fianco la cava dove lavorano di gran lena, finiamo nel nulla.
Il sentiero letteralmente scompare tra rovi ed erba alta, facciamo un pò di tentativi ma non troviamo nessuna traccia.
Visto che cime e creste sono nelle nubi e che l'unica via d'uscita sarebbe attraverso la cava decidiamo di rifare, in salita, la ferrata, (non è difficile ma lunga ed a farla due volte la fatica si sente).
Ritornati su ci portiamo per cresta e sentierini alla Foce di Giovo da dove scendiamo verso il rifugio attraversando, alla fine, un'altra cava (dismessa ma vicino ce n'era un'altra in piena attività).

Un faggio sembra osservare chi passa nel bosco.
Gli 'occhi' sono cicatrici di rami spezzati.
Purtroppo le nuvole sulle creste non ci hanno mai abbandonato, neanche il terzo giorno, quando saliamo al rifugio Orto di Donna e ritorniamo giù passando per la Foce di Cardeto.

Chissà se è la vicinanza del mare o, come diceva qualcuno, semplici nubi di sollevamento dell'umidità notturna.
Fatto sta che alle 7 di sera rasserenava, la notte era stellato e po, dalle 10 del mattino, via con le nubi!

Concludendo, si tratta di montagne affascinanti e da non sottovalutare.
La bassa quota non deve trarre in inganno perchè i dislivelli son di tutto rispetto ed i percorsi alle cime quasi sempre richiedono una certa dimestichezza con la roccia.
Anche nei boschi, se si lasciano i sentieri tracciati, ci si può ritrovate in punti la cui esposizione è nascosta dalla vegetazione.
Una buona cartina e senso dell'orientamento qui sono più indispenzabili che altrove.

giovedì 1 maggio 2014

Nelle Calanques, sulle tracce di Gaston Rebuffat.



Panorama dal "Belvedere" verso la Chandelle (verso Sud)


Chi ha formato la sua fantasia alpinistica leggendo le storie dei grandi degli anni 60 ha sicuramente sentito parlare oltre che del grande Bonatti anche di Gaston Rebuffat. Questi era noto per una concezione gioiosa dell'alpinismo che ha perseguito anche nella sua carriera di guida. Lui era felice della felicità che leggeva negli occhi  dei clienti e quindi provava piacere nel ripetete più volte gli stessi itinerari al cambiare dei clienti (che erano prima di tutto amici). 
Panorama dal sentiero per la Chandelle verso il "Belvedere" (verso N)
Anche a noi è capitato di pensare, visitando un posto nuovo e trovandolo particolarmente piacevole, a quando ci accompagneremo questo o quell'amico. Ritrovare nei suoi occhi lo stesso nostro stupore è appagante quasi come la prima visita. Questo approccio plaisir, innovativo in quegli anni in cui imperava la lotta con lalpe, non può che essere nato dalle frequentazioni in veste alpinistica delle sue montagne di casa le Calanques. Rocce vertiginose a picco sul mare ed a due passi dalla sua Marsiglia, ambiente solare e dalla luminosità estrema.
La Chandelle ed il Chandellon.
La zona, pur essendo confinante con Marsiglia, presenta delle zone assolutamente selvagge. 

Purtroppo negli anni passati è stata più volte colpita da incendi, favoriti dalla forte insolazione e dalla presenza quasi costante del Mistral, che piomba giù dalle gole del Rodano ed arriva sulla costa senza traccia di umidità e su molti sentieri è vietato laccesso da Luglio a Settembre per evitare incendi spontanei.

E' frequentata da milioni di visitatori lanno, ma al di fuori delle zone più battute, nelle zone più esterne, può capitare di camminare per ore senza incontrare nessuno.

La segnaletica è essenziale, pochi segni di vernice su sassi, e non è inusuale perdersi nel reticolo di sentieri e tracce che vanno su e giù dai valloni.


Avendo pochi giorni a disposizione abbiamo visitato la zona vicina allUniversità di Marsiglia, portandoci fin sotto la mitica Chandelle ed arrivando al Belvedere. Questa zona è molto frequentata data la vicinanza di Marsiglia e del polo universitario Ma raggiunto il colle molti si fermano e gli altri si disperdono in tutte le direzioni. Il panorama verso la cosa è superbo e le rocce di accesso al belvedere, levigate come quelle del Partenone, testimoniano la frequentazione del posto. 

Il becco dell'aquila
Un altro giorno è stato dedicati alla zona tra Cassis e La Ciotat (con una puntata ai bordi delle enormi falese di Cap Canaille ed al becco dellaquila (riuscendo anche a essere contemporaneamente benedetti dalla pioggia e sferzati dal vento).

L'unica giornata piena, con il tempo ristabilito, è stata dedicata ad un lungo giro ad anello che dal parcheggio del col de la Gardiole ci ha portati nelle calanque di Port Pin e poi di En Vau (il più spettacolare dei fiordi con tante vie di roccia ed il dito di Dio).
 
Dopo una lunga traversata (con un paio di smarrimenti di sentiero) ci siamo affacciati infine alla costa nella falesia di Essaidon. Da li abbiamo continuato sui bordi della falesia più selvaggia e remota, quella di Devenson, noi sferzati dal vento, mentre le cordate in parete sfrigolavano al duo riparo sulla roccia.
En Vau. Un posto veramente magico.

Abbiamo infine raggiunto il colle tra Chandelle e Chandellon dove abbiamo visto, da altra prospettiva, il lato Marsigliese (col vento che ormai tentava di sradicarci dalla roccia).
Da qui al ritorno al parcheggio abbiamo testato in pieno la potenza del Mistral, alcune raffiche ti buttavano letteralmente a terra, bisognava camminare inclinati per bilanciarlo.
Devenson, accucciati per il vento

Solo i gabbiani riuscivano a giocarci e si divertivano ad andare su e giù.
Probabilmente siamo stati fortunati essendo venuti in un periodo non di punta.
Sole, vento e roccia a volontà

Vento permettendo il periodo migliore per la visita va dallautunno alla primavera, quando il clima non è rovente (ma le innumerevoli strutture rocciose sono prese dassalto da tanti arrampicatori che vengono a svernare qui).

Un esempio di come un territorio può essere turisticamente attraente senza essere snaturato e ridotto a giocattolo. 

Al colle tra Chandelle e Chandellon